Fin dai decenni successivi alla morte e risurrezione di Gesù molti fedeli cristiani si sforzarono di recuperare, traslare e conservare reliquie che potevano ricordarne la vita e gli insegnamenti.
Questo bisogno fu poi esteso anche a resti del corpo di santi e ad oggetti che gli appartenessero.
Nel giro di pochi secoli reliquie di ogni tipo, vere o false che fossero, divennero oggetto di culto tra i credenti. Quindi vennero associate a identità e potere, come se chi le possedesse fosse in qualche modo benedetto da Dio e in virtù di esse dovesse essere riconosciuto, temuto e rispettato al di sopra di ogni altro.
Agli inizi, molto spesso, le reliquie appartenevano ad una chiesa, un monastero, una comunità cristiana, ma con il passare del tempo la percezione del loro potere cominciò ad invogliare anche singoli individui ad entrarne in possesso.
Questo portò a veri e propri traffici che continuarono fino al Basso Evo, raggiungendo il loro picco durante l’epoca delle Crociate, quando molta gente (pellegrini e guerrieri), di ritorno dai saccheggi di Gerusalemme, spacciava come reliquie ogni sorta di osso, pietra, croce che fosse riuscita a recupare nei posti dove era vissuto ed aveva insegnato Gesù.
Da qui il diffondersi di miti e leggende sulle reliquie più rare e su quelle che avrebbero dato poteri spirituali e temporali immensi a chi le avesse trovate.
Il cosiddetto Sacro Graal sarebbe dovuto essere, secondo le credenze in voga nel primo millennio, il calice da cui Gesù e gli altri apostoli avevano bevuto nella loro ultima cena, cioè prima che Gesù fosse arrestato.
Secondo il “sentito dire” più diffuso (e qui si parla di storie narrate da dieci secoli e quindi attraverso quaranta e più generazioni), il calice era stato recuperato da Giuseppe di Arimathea dopo l’arresto di Gesù, e lo stesso Giuseppe lo avrebbe poi riempito del sangue del Cristo mentre questo fioccava dalla ferita inferta nel costato da una guardia romana.
Per secoli si credette che possedere quel calice e bere da esso (anche se non è mai stato chiaro se s’intendesse riempito di vino o del sangue di Gesù) avrebbe conferito nutrimento senza limiti e vita eterna.
Ovviamente tale mito si sviluppò all’inizio come materializzazione concreta del significato che già s’era stabilito nell’eucarestia, che appunto simbolizza la condivisione dell’eternità con Dio attraverso l’atto di bere del vino (non a caso chiamato “sangue” di Gesù) dallo stesso bicchiere.
Poiché la gente spesso fatica a capire i significati dei riti ed è più incline a capire (e quindi a credere) le cose solo quando le vede con i propri occhi, ecco che l’idea che quel calice esistesse ancora e potesse essere ritrovato si sparse velocemente e diede origine ad ogni sorta di fantasia.
Siccome ogni comunità cristiana aveva già i suoi miti e le sue leggende ancorate alla propria storia, ancora prima dell’avvento del cristianesimo, non ci si stupisce che la fantasia di questo sacro calice sia poi stata deformata e cambiata a seconda del diverso narrato ereditato in ogni popolo.
Ecco dunque arrivare alle orecchie del poeta francese Chretien de Troyes, verso la fine del XII secolo, la storia che il più famoso dei calici mai possibili fosse stato rinvenuto in Galles molti secoli prima dai cavalieri di un certo Artù, re locale molto amato per il suo senso di giustizia e molto temuto per il suo coraggio, e le cui gesta erano state rinarrate da un certo Geoffrey di Monmouth mezzo secolo prima.
Nessuno ovviamente poteva allora provare che Re Artù fosse vissuto per davvero e che invece anche quella fosse una leggenda come altre. Certo si sapeva che molte tribù celtiche s’erano ritirate in Galles dove i Romani non erano ruscite a debellarle nei primi secoli dopo Cristo.
Molte tribù e sicuramente qualche valoroso capo locale erano riuscite poi a fermare le ondate di Sassoni e Angli che si erano riversati sulle loro coste a partire dal V secolo.
Quindi ce n’era abbastanza per credere che ci fosse qualcosa di speciale in quei guerrieri del lontano Nord, e dobbiamo ricordare che la Britannia, allora chiamata Terra dei Ghiacci (prima ancora della scoperta dell’Islanda nel IX secolo), era la terra più lontana che si potesse immaginare verso Nord.
Insomma un posto ideale dove cercare l’introvabilissimo calice. E che dire poi di questo signor Merlino, mago misterioso e ostile, che non era sicuramente contento del posto che il Dio unico (come lo chiamavano i pagani) stava prendendo sempre di più a discapito degli dei che per secoli s’erano onorati lassù, e di cui lui era rappresentante e quindi autorità religiosa legittima?
E questa faccenda dei dieci cavalieri che tanto ricordavano i dodici apostoli? E di questo Parsifal che ricordava, per la lealtà provata fino all’ultimo minuto, San Giovanni? E di Lancillotto che prima cede al peccato, poi si redime e giunge a vincere nella battaglia finale, dimostrando che si può tornare alla purezza originale attraverso la conversione e il pentimento?
Tutti concetti ben noti dall’insegnamento di Gesù che potevano ora essere ritrasmessi in una versione più consona all’idea della purezza e della forza presso la gente che viveva in quei secoli nel nord d’Europa. Gente la cui conversione al cristianesimo era stata cosa molto più recente di quanto avvenuto sulle coste del Mediterraneo, giacché dobbiamo ricordare che il paganesimo si estingue in Nord-Europa solo dopo il 1000.
Dunque le date e i tempi combaciano. Da una parte la necessità di tradurre concetti cristiani per gente che viveva ancora con Odino, Thor, Freya e i loro cavalieri del Walalla nella testa; dall’altra la necessità per i nuovi aristocratici franchi, angli, sassoni e variaghi (spesso discendenti di confederati barbari) di legittimare il loro potere agli occhi del popolo tramite l’associazione con ruoli speciali, come quello di paladini della fede, e quindi, come lo erano stati i cavalieri di Artù, di instancabili protettori di tutto cio’ che era venuto da Gesù.
Per secoli la gente povera e contadina inconsciamente avvalorò quel ruolo, rifiutandosi (se mai l’avesse pensato) di sfidare il potere di quei pochi guerrieri, molto ben preparati a combattere e cavalcare, con armi molto costose e fuori portata dei più, e che per giunta si proponevano di difendere i valori che essa aveva imparato ad amare così tanto.
Il mito del Sacro Graal non solo consentiva di credere che tutto ciò che era stato testimoniato dai primi testimoni che erano vissuti al tempo di Gesù (San Paolo, San Marco, San Luca per esempio) fosse autentico ma anche che ci fossero uomini forti e valorosi, disposti a dare la propria vita pur di difendere quelle testimonianze.
Inutile dire che in tempi in cui l’Islamismo era diventata una minaccia mortale per l’Europa e le immagini di quelle facce nere, brutte, sporche e cattive, narrate ed esagerate dai sopravvissuti dei massacri sulle coste mediterranee, popolavano gli incubi di donne, vecchi e bambini, l’idea di questi cavalieri puri e bianchi (come la pelle dei membri del loro popolo) che potevano proteggerli per sempre era una fonte di rassicurazione indispensabile.
E al tempo stesso, per coloro che potevano beneficiarne, tra aristocratici e ricchi clerici, una formidabile legittimazione politica.
Non sappiamo se Chretien de Troyes si fosse entuasiasmato per la storia di Geoffrey su quel tale Artù perché ricca di ingredienti romantici e poetici, come era di moda nella letteratura di corte di allora, o perché effettivamente potesse servire anche a dar forza alla legittimazione politica di una classe aritocratica che ormai cominciava a vedere l’inizio della propria fine, sempre più minacciata dall’espandersi dei poteri municipali e dalla crescita della borghesia cittadina.
Certo quella del Sacro Graal, storia dunque concepita tra l’XI e il XII secolo per come la conosciamo oggi, fu una favola meravigliosa che tornava utile a tutti, grandi e piccini, poveri e ricchi, in un tempo in cui si stavano attuando le rappresaglie più furiose della Chiesa contro l’Islam. Nel corso di tre secoli le Crociate avrebbero colpito fatalmente il cuore stesso di quel nemico, spazzando via per sempre la possibilità che esso arrivasse a conquistare Roma e por fine al cristianesimo (mira di cui del resto molti emiri non facevano mistero).
Così, nei secoli successivi, la storia di Chretien (lasciata incompiuta nel 1191 quando l’autore morì) fu ripresa da molti altri, come il francese Robert di Boron che nel XIII secolo vi specificò il ruolo di Giuseppe di Arimathea, per arrivare alla versione finale di Wolfram von Eschenbach, autore del maestoso Parsifal.
Ma nei secoli successivi la storia perse sempre di più l’originale connotato cristiano del calice della prima eucarestia e diventò sempre più veicolo di un ideale di purezza assoluta, divina, a cui solo pochi eletti potevano avere l’onore di assurgere.
Così non c’è da stupirsi se nel XIX secolo, con il montare delle ideologie razziste, la storia si prestava benissimo come metafora di popoli eletti che dovevano lottare per preservare la loro identità più pura.
Ed ecco allora, dietro alle cupe e grandiose sinfonie di Wagner, chiederci chi e cosa siano veramente stati quei Sigfrido e Tristano, quelle Isotta e Brunilde e tutti gli altri personaggi che affollavano il Crepuscolo degli Dei, come lui stesso lo chiamò, se non il tentativo di far risorgere, usando una leggenda cristiana, ciò che era in fondo l’anima più pagana dei popoli ariani.
Ormai completamente avulso dal significato originale, cioè quello di una reliquia che testimoniasse la prima eucarestia e la garanzia che Gesù avrebbe donato eternità a chi avesse avuto il coraggio di condividere il dolore umano con lui (“bere dallo stesso sangue” si recita ancora oggi nella messa), il mito del Sacro Graal finì per diventare oggetto dei deliri di grandezza di Adolf Hitler ed altri associati che presero ad intitolare le più spaventose operazioni belliche con i nomi dei suoi protagonisti.
Poi, dopo decenni di pace e riflessione, ecco ritornare questa affascinante storia di nuovo attraverso il suo veicolo più consono ed appropriato, quello della letteratura fantastica.
C’è indubbiamente molto della metafora apostolica del Sacro Graal nell’affannosa ricerca della purezza attraverso la condivisione del dolore tra membri della Compagnia dell’Anello di J.R. Tolkien. Eccovi Frodo, novello Parsifal, superare eroicamente le prove più estenuanti allo scopo di distruggere l’oggetto della Discordia e salvare i popoli buoni dal Male.
E c’è moltissimo della originale saga arturiana in quasi tutti i romanzi di fantasy. Forse a testimoniare che la purezza spirituale è un qualcosa che non si smette mai di cercare e la cui ricerca può portare a risultati brillanti tanto quanto alla follia diabolica, come nelle rielaborazioni perverse del Codice da Vinci, a seconda di come e in compagnia di chi si voglia veramente bere da quel calice.
Ricerca a cura di Sara Dalla Valle
Font
- Il Sacro Gral: immaginazione e fede, Richard Barber, ed Allen Lane, 2006
- Materiale bibliografico per La Croce del Rubino, romanzo storico fantastico, Giovanni Dalla-Valle, Bookrix, 2010.