Il Medioevo è sempre stato, negli studi e nel pensiero di molti, oggetto di ogni sorta di pregiudizi e incomprensioni. L’età buia, l’epoca della cavalleria, della superstizione, del feudalesimo.
Certo, tutte queste etichette hanno una loro ragion d’essere, ma sempre più limitata nel tempo e nell’importanza di quanto la scuola ci abbia abituati a credere. Qui mi occuperò solamente dell’ultimo dei “pregiudizi” elencati, il feudalesimo. è certo che questa parola evoca immediatamente nell’immaginazione di tutti uno scenario di re e signori, castelli e vassalli a capo di schiere di cavalieri legati da un giuramento di fedeltà. E molti ricorderanno la piramide feudale presente su tutti i libri delle elementari: il re in cima, sotto di lui i vari gradi del potere che da lui procede, vassalli, valvassori e valvassini, e in fondo i contadini, servi della gleba. Questa è l’immagine comune del Medioevo nella sua totalità. In poche parole: nel nostro immaginario Medioevo e feudalesimo sono quasi intercambiabili, e l’uno definisce l’altro. Ma è davvero plausibile che un periodo storico durato più di mille anni sia stato caratterizzato quasi interamente da una sola forma di potere sugli uomini? I più recenti studi sulla cosiddetta età di mezzo mostrano che non è affatto così, e riescono a seguire le tracce, per quanto labili, di un’evoluzione sociale che trova il suo perno nella struttura agricola della curtis.
LE ORIGINI DELLA CURTIS: IL MANSUS
La curtis è un tipo di organizzazione della coltivazione nelle campagne dell’alto medioevo. Per capire come sia nata dobbiamo prima ricordare che nell’Impero Romano la principale struttura agricola era la villa, costituita dalle proprietà di ricchi latifondisti, che facevano coltivare i terreni dai loro schiavi. Con l’Alto Medioevo la situazione inizia lentamente a cambiare, perché le guerre, le pestilenze e la carestia portano ad una drastica riduzione della popolazione che rende difficile mantenere produttive vaste proprietà. Le zone incolte aumentano sensibilmente.
E’ difficile definire chiaramente cosa avvenne nei primi secoli dell’Alto Medioevo, perché le fonti sono molto scarse: in Italia i documenti ufficiali che risalgono a prima della metà del VII secolo sono solo 30. Con l’avvento dei longobardi le chartae iniziano ad essere più numerose, e dall’VIII secolo si delinea una nuova situazione: c’è una certa quantità di piccoli proprietari, le cui terre sono nominate variamente come casa, casale, casalino e in seguito come mansus. Questi piccoli appezzamenti non consentivano alla famiglia di sostenersi, e si doveva quindi ricorrere anche a terre in concessione e l’utilizzo dell’incolto. Frequente nei documenti è il libellus, o livello, contratto con cui le terre sono cedute in concessione, di solito molto lunga, anche vitalizia. Il livello imponeva al contadino di versare un censo al padrone della terra, e spesso anche di fornire un certo numero di giornate di lavoro, le angarìe, sulla terra padronale.
In questi contratti è frequente anche il riferimento alla consuetudine, non solo della quantità di beni da versare, ma anche dell’appartenenza a certi spazi territoriali: molti contratti insistevano sull’obbligo dei contadini di risiedere sulle terre coltivate, a pena di essere puniti corporalmente se inadempienti. Un esempio è un documento del monastero del Monte Amiata in cui si dichiara: “potrete prendermi e incatenarmi, appiccarmi ad un ceppo e bastonarmi”.
Questa tendenza a considerare il massaro come appartenente alla grande azienda fondiaria del proprietario (che generalmente era un vescovo o una comunità monastica, ma poteva anche essere un grande possidente laico) si sviluppa con l’aggregazione dei mansi ad un’entità più complessa, la curtis.
STRUTTURA DELLA CURTIS: DALLE ORIGINI ALLA TERRITORIALIZZAZIONE
Questa entità più complessa è divisa in due parti: la pars dominica e la pars massaricia. La prima, il dominico, è la parte direttamente coltivata dagli schiavi che appartengono al grande proprietario. La seconda include i vari mansi che con il tempo si sono aggregati alla struttura curtense. Di conseguenza, la curtis non era uno spazio compatto della campagna, e tra i vari mansi potevano esserci altre proprietà o mansi parte di curtes diverse.
I mansi poi si distinguevano in base alla condizione di libertà del coltivatore: il massaro poteva essere completamente libero, oppure uno schiavo, o ancora un aldio, in uno stato intermedio tra libertà e schiavitù. Sempre più comune con il tempo diventerà l’usanza di concedere la libertà agli schiavi, di solito tramite testamento per la salvezza della propria anima. Sempre più di frequente, poi, con secoli IX e X si assiste all’accasamento degli schiavi, per cui una parte del dominico veniva ceduta allo schiavo come manso: da ciò l’erosione sempre maggiore della pars dominica. è proprio in questi secoli che si assiste nei documenti ad un prevalere dei contratti di locazione su quelli di compravendita, con costante definizione della corrisposta contadina sulla base della consuetudine.
Dalla fine dell’800, poi, è sempre più frequente il caso in cui il concessionario è una persona diversa dal contadino: chi regge il manso è un individuo agiato che versa al proprietario un censo, mentre il contadino lavora la terra. Si afferma così un ceto di mediatori tra i grandi proprietari, generalmente ecclesiastici, e i lavoratori. Comune è anche il caso in cui anziché una singola casa, ne vengano cedute diverse in blocco: evidentemente chi stipula questi contratti ha un livello di ricchezza superiore al contadino comune. Un esempio comune di questo tipo di concessione è l’allivellamento della pieve, la chiesa battesimale, per cui versando un censo il livellario “mediatore” ottiene le decime dei territori sottoposti a quella chiesa.
Di solito questi contratti implicano un impegno a risiedere o a far sì che gli uomini risiedano stabilmente sul territorio. Nel X secolo infatti si nota da parte dei servi la tendenza a fuggire dalle terre a cui la consuetudine li vorrebbe legati. La presenza di queste fughe si nota non solo attraverso la forma dei contratti di livello, ma anche dalle cause giudiziarie contro i fuggitivi. I grandi proprietari rivendicano così il diritto ad distringendum, cioè di trattenere e anche mettere in ceppi i servi che tentino la fuga: questa facoltà prende il nome di districtus.
Il fenomeno della fuga è dovuto in parte all’ascesa sociale di alcuni di questi servi, che quindi tendono a rivendicare uno stato di maggiore libertà, dall’altro ai tentativi di altri proprietari di attirarli verso di sé con promesse di migliori condizioni.
Lo sviluppo di tutti questi fenomeni, riduzione del dominico, mediazione di ceti agiati e soprattutto richiamo all’appartenenza territoriale porteranno ad uno sviluppo per cui il potere del padrone di riscuotere tributi e decime non sarà più visto come dipendente dalle proprietà a lui sottoposte, ma verrà affermato su base territoriale: tutti coloro che vivono in una determinata area sono tenuti a versare una quota. Questo obbligo vuole colpire anche chi non guadagna con l’agricoltura, ad esempio militi e mercanti: semplicemente, riguarda chiunque risieda in quella circoscrizione. In seguito all’affermarsi del principio di territorialità, la curtis cambia quindi fisionomia, ed il grande proprietario diviene signore. Ma prima di vedere in che modo la corte cambi, dobbiamo brevemente guardare a due realtà che si intrecciano con essa: il vassallaggio ed il potere pubblico.
VASSALLI, CONTI E VESCOVI
Che cos’è veramente un feudo? Anche in questo caso l’immagine comune della piramide feudale non aiuta a comprendere la più complessa realtà storica. Essenzialmente, un feudo è una forma di concessione come beneficio, per il quale anziché corrispondere i normali servizi dei contadini, il beneficiario offriva solitamente una clientela militare. A differenza del contratto di livello, il beneficio feudale non era concesso tramite contratto scritto (almeno fino a tutto il X secolo) e poteva essere revocato ad arbitrio da colui che lo concedeva. è per questa ragione che verso la fine del 900 l’abate di Bobbio e futuro papa Gerberto d’Aurillac condanna le concessioni livellarie, preferendovi quelle feudali, poiché le prime conferivano ai concessionari un diritto troppo forte sulle terre dell’abbazia. Quindi il beneficio feudale impediva un eccessivo potere di individui che avevano già un certo peso sociale, e d’altra parte li favoriva con la mancanza di oneri censuari. In aggiunta, se il feudo era già gestito a livello da un terzo, era il vassallo a riscuotere il censo di quelle terre. Oltre a formare clientele militari, nel qual caso il beneficiario è vassallo in senso proprio, il feudo poteva anche essere concesso a funzionari dell’ente religioso, avvocati, o nobili di cui si cercava l’alleanza. Il caso più tipico è comunque sempre quello del milites che forniva un servizio armato. Col tempo questo fenomeno va ad intaccare, senza ovviamente portarli alla scomparsa, i patrimoni ecclesiastici, e a rafforzare il ceto dei milites.
C’è una seconda domanda da porsi: chi erano i conti? L’idea dinastica di famiglie nobiliari in cui il titolo di conte (o marchese) si trasmette di padre in figlio è, in origine, sbagliata: il titolo di conte o marchese denotava in principio, nel regno carolingio, una carica pubblica, un funzionario liberamente nominato dal re e preposto a determinate circoscrizioni, dette comitati o, se di confine, marche. La tendenza, però, a considerare normale la trasmissione ereditaria della carica si nota già nel capitolare di Quierzy emanato da Carlo il Calvo nell’887. I poteri esercitati dai conti, tuttavia, avevano reale efficacia solo sulle terre possedute dalla famiglia o detenute in beneficio; in tutto il resto della circoscrizione erano frequenti invece gli scontri con gli aristocratici e gli enti ecclesiastici.
In particolare, i vescovi e i monasteri ricevevano dai sovrani, sin dall’età carolingia, la concessione di immunità, per cui gli ufficiali pubblici non avevano alcuna autorità nelle loro terre. Ciò portò anche ad una progressiva assunzione, da parte di questi enti, di mansioni militari, amministrative e giudiziari. Anche i laici tendevano a rivendicare, senza formale diritto, questa esenzione. Si aveva dunque una forma di “triplice imitazione”: i signori laici imitano le prerogative degli istituti religiosi ed tentano di esercitare i poteri dei conti, vescovi e monasteri tendono a governare autonomamente i loro territori, e i conti si comportano da proprietari terrieri richiedendo censi e lavoro e considerando il titolo parte del patrimonio.
Si vede dunque come potere pubblico, possesso territoriale e beneficio feudale si intrecciano strettamente, arrivando infine a confondersi. Oltre a tutto questo, c’è un ultimo elemento che non può essere dimenticato: si tratta dei castelli.
I CASTELLI
Il fenomeno dell’incastellamento, la notevole proliferazione di fortezze e castelli iniziata in Europa tra la fine del IX e l’inizio del X secolo e proseguita anche fino al XIII, viene tradizione ricollegato alla crisi dell’impero carolingio e alla sua fine nell’887 con l’abdicazione di Carlo il Grosso. Tuttavia altri fatti diversi dal frazionamento dell’impero possono spiegare meglio l’incastellamento. La metà dell’800 infatti coincide con l’invasione dei Saraceni, ossia con l’espansione di varie popolazioni islamiche del Mediterraneo che arrivano a fondare dominazioni politiche nell’Italia del sud e a costruire fortezze lungo tutta la penisola e nella Francia meridionale. Dalla fine dell’800 poi l’Europa subisce l’invasione dei Magiari, o Ungari, nomadi delle steppe russe, che razziano fino al X secolo senza mai occupare fondare piazzeforti. A queste si aggiunge l’espansione dei popoli scandinavi, noti in occidente come Normanni o Vichinghi. Resistere a queste invasioni è una delle cause della fondazione dei castelli; a questa si accompagnano altre ragioni quali le lotte interne e il desiderio di un più efficace controllo sulle popolazioni locali.
Presso i castelli la popolazione si concentrerà abbandonando insediamenti più piccoli e fattorie isolate. Il risultato dell’incastellamento è che il potere locale si rafforza, indipendentemente dal lontano potere del re: i signori di castello ottengono così di fatto poteri politici, giudiziari e fiscali.
Ora che abbiamo visto in breve lo sviluppo dei castelli, possiamo inquadrare chiaramente il fenomeno della signoria e i cambiamenti sociali che esso comportò.
EVOLUZIONE DELLA SIGNORIA E MUTAMENTI SOCIALI
Torniamo allora a dove avevo lasciato l’argomento della curtis: la sua territorializzazione. In seguito a questo fenomeno e al suo incrociarsi con gli altri appena descritti, assistiamo ad una nuova e diversa forma di potere sugli uomini: la signoria, presente quasi ovunque in europa a partire dall’XI secolo. L’elemento centrale della signoria è il castello, circondato da contadini e da gruppi armati legati al signore da un rapporto vassallatico-beneficiario. Possiede una vasta parte di terre coltivate, gestite in maniera identica a quelle della curtis. Esercita inoltre i poteri di amministrazione della giustizia, di difesa militare e di riscossione delle imposte, più i monopoli su alcuni servizi come la molitura ed eventuali tributi straordinari a suo arbitrio.
Il territorio sottoposto al suo potere è detto districtus, termine passato anche in italiano con significato territoriale, ma che come abbiamo visto indicava originariamente il diritto di costrizione e punizione. C’è stata dunque un’evoluzione semantica che testimonia dell’evoluzione del potere signorile, passando dalla consuetudine a risiedere sulle terre, all’obbligo di farlo, fino all’autorità del latifondista su tutta una determinata circoscrizione. Questo potere, poi, è patrimonializzato, cioè considerato alla stregua di ogni altro possesso familiare e come tale può essere ereditato, spartito, venduto o donato.
Piuttosto che concentrarsi su una crisi dei poteri centrali, per spiegare l’affermazione della signoria oggi si tende a ricorrere alla “teoria curtense”: l’autorità del signore deriva non da concessioni feudali “dall’alto”, ma da un preesistente possesso fondiario che si unisce a concessioni di immunità e all’appropriazione ereditaria dei poteri pubblici. Lo storico Bloch aveva mostrato che i rapporti di dipendenza delle classi inferiori alla signoria non erano di natura feudale, e l’allievo Boutruche aveva sottolineato come i poteri signorili si fossero originati spontaneamente dal basso anziché essere delegati da un’autorità superiore. Anche nel caso della fondazione di castelli, l’iniziativa del privato è sempre autonoma, e solitamente la “concessione regia” arriva sempre a cose già fatte: un esempio tipico è re Berengario (X secolo), che nella maggioranza dei documenti non fa che dare la sua “magnanima” approvazione di fortificazioni già costruite.
Naturalmente altre spiegazioni politiche ed economiche sono state date per la nascita della signoria, tutte valide in una certa misura, ma, nonostante le diversità di interpretazione, tre forme di signoria sono oggettivamente riconoscibili: la signoria domestica, per cui i poteri si esercitano solo su chi risiede nella casa del padrone (famiglia e servi); la signoria fondiaria, per cui l’autorità grava solo sui concessionari dei terreni; infine, la signoria territoriale, un’egemonia di tipo locale, chiamata anche “di banno” perché sua caratteristica fondamentale è l’esercizio delle facoltà, un tempo regie, di esazione, giustizia e difesa, che in lingua germanica erano appunto dette ban, ed oggi “bannalità”. L’esercizio di questi poteri era ovunque fonte di conflitto tra i vari detentori di poteri signorili, tanto più che spesso diverse bannalità facevano capo a signori diversi.
L’evoluzione dei dominati territoriali ha portato con sé anche una trasformazione della società: abbiamo parlato prima degli schiavi liberati e accasati, e della pretesa dei signori di vincolare i liberi ad un determinato luogo, sancito dalla consuetudine. Questi due fenomeni paralleli e di segno opposto conducono ad un’omogeneizzazione della condizione contadina, una fusione tra contadini liberi e antichi schiavi. La soggezione del “nuovo ceto” ai signori non aveva uno stato giuridico ben definito, e variava in base alle regioni; dagli ultimi decenni del 900 si nota infatti una ripresa delle relazioni servili; solo dal XII secolo si avrà la definizione della dipendenza contadina più gravosa come servitù, che in alcuni casi si caratterizzerà come la ben nota servitù della gleba.
D’altra parte, anche gli strati superiori della società cambiano: davanti ad una crescente importanza degli enti religiosi nel mantenimento di una struttura di potere, si vede l’avanzata di un ceto di milites, circa tra il 920 e il 1050, contro cui le chiese tenderanno a muovere lamentele e varie accuse di empietà e scarso rispetto per i loro territori. Come avevo anticipato, questo strato di frequente costituisce una forma di intermediazione tra i grandi proprietari e i contadini, e favorisce il declino del manso, e quindi della curtis, e la sua trasformazione in una realtà diversa.
In questo contesto le differenze sociali si accentuano, l’aristocrazia passa da una “nobiltà di fatto” ad una “nobiltà di diritto” definita ereditariamente, e la cavalleria, che prima era accessibile anche a contadini ricchi e persino servi affrancati, si identifica sempre di più con la nobiltà. Si passa quindi da una situazione di mobilità sociale ad una di chiusura: il ceto aristocratico feudale e cavalleresco si affermerà definitivamente tra XII e XIII secolo. Solo in questi secoli il beneficio feudale incomincia a perdere la sua caratteristica militare, divenendo un mezzo di organizzazione del potere per cui il signore locale donava ad un potente la signoria, per riceverla poi in feudo come pegno di fedeltà: questa pratica è detta del “feudo oblato”. Anche i comuni, spesso identificati ideologicamente come forma di progresso rispetto al rigido feudalesimo, si riconoscevano spesso vassalli collettivi di un’autorità superiore, ottenendone in cambio i poteri regi di governo: è questo il caso delle città della Lega Lombarda e dell’imperatore Federico Barbarossa. è solo allora, dunque, che strutture politiche e benefici feudali vennero ad identificarsi, e si realizzò quella piramide feudale la cui immagine è stata a lungo proiettata su tutto il Medioevo.
PERIODI NELLO SVILUPPO DELLA CURTIS
700 | 800 | 900 | 1000 | 1050… |
—— Fase I ——- | ||||
———————- Fase II —————– | ||||
—— Fase III —— | ||||
—— Fase IV —— | ||||
—————- Fase V ————– | ||||
———— Fase VI ———— |
700
|
800
|
900
|
1000
|
1050…
|
- Sec. VIII-820 ca. Assestamento dei mansi
- Sec. VIII-920 ca. Presenza considerevole della servitù rustica e vertenze sullo stato di libertà.
- 820 ca.-920 ca. Sviluppo delle curtis, con integrazione di lavoro servile e corveès di massari.
- 850 ca.-950 ca. Sviluppo di livelli e feudi di non lavoratori (intermediazione).
- 920 ca.-1050 ca. Affermazione dei milites, territorializzazione, incastellamento e signoria.
- 970 ca.-… Querimonie di chiese contro milites. Recrudescenza di relazioni servili.
Ricerca a cura di Andrea Basso
Fonti
- AA.VV., Storia medievale, Roma, Donzelli. 1998
- ANDREOLLI, MONTANARI, L’azienda curtense in Italia, Bologna, 1983
- P.CAMMAROSANO, Storia dell’Italia Medievale – Dal VI all’XI secolo, Bari, Laterza, 2001
- G. SERGI, L’idea di Medioevo – Fra storia e senso comune, Roma, Donzelli, 1998, 2005
- P. TOUBERT, Dalla terra ai castelli, Torino, 1995
- G. VITOLO, Medioevo – I caratteri originali di un’età di transizione, Perugia, Sansoni, 2000