Le Signorie sorsero in Italia tra la fine del sec. XIII ed il principio del sec. XV, quando le città affidarono il potere a vita ad un solo cittadino poiché i Podestà, rimanendo in carica solo pochi mesi, non avevano il tempo necessario per far valere la loro autorità.
Talvolta i Signori s’impadronirono del potere con le armi, o con l’appoggio di un partito; solo eccezionalmente i feudatari divennero i Signori delle loro terre. In Verona il popolo conferì spontaneamente ad una sola famiglia tutte le cariche più importanti, per essere protetto e difeso dalle prepotenze delle altre grandi famiglie.
La Signoria Scaligera (1262-1387) fu gloriosa, potente e benefica. Ebbe inizio con Mastino, anche se vero Signore fu soltanto Alberto. Mastino provvide anzitutto a sedare le discordie e difendere i cittadini dalle vendette dei fuorusciti. A questo fine occupò tutti i castelli che servivano di base alle guerriglie e già nell’anno 1272 essi erano saldamente nelle mani del Comune. Allora poté riordinare la città e stringere relazioni con i centri vicini, soprattutto con Mantova.
il suo più valido collaboratore fu il fratello Alberto, che nell’anno 1269 gli successe come Podestà della Domus Mercatorum. La signoria di Mastino fu di tendenza ghibellina e di carattere popolare, accostandosi in questo, e solo in questo, alla tirannia di Ezzelino. Nell’ottobre dell’anno 1267 Mastino accolse festosamente Corradino di Svevia e gli diede i mezzi per arruolare nuove milizie, da unire alle poche schiere tedesche che aveva condotto con sé. Numerosi cavalieri veronesi seguirono l’imperatore, tanto che nel novembre dello stesso anno il pontefice Clemente IV colpì con la scomunica Corradino, i suoi aderenti e la stessa città di Verona.
In seguito al fallimento dell’impresa di Corradino, cosi apertamente appoggiata da Mastino, le famiglie guelfe si ribellarono e le città vicine effettuarono qualche incursione nel territorio veronese.
La difficile situazione fu superata espellendo o vincendo con le armi i nemici, occupando i loro castelli ed opponendo alle minacce esterne l’amicizia con Mantova. Questa città, dominata in precedenza dagli Estensi e dai Sambonifacio, nell’anno 1272 venne in potere dei Bonaccolsi, fedeli alleati degli Scaligeri. Così l’unico lato aperto e naturalmente indifeso del territorio veronese era protetto contro ogni invasione. Rimaneva l’interdetto papale; ma anch’esso fu tolto nell’anno 1277, dopo che furono imprigionati 166 eretici catturati a Sirmione.
Per quanto riguarda l’ordinamento cittadino, Verona aveva una ben definita costituzione democratica. Il Consiglio Maggiore era costituito da 500 cittadini che erano scelti annualmente dal Podestà e si riunivano nella Piazza delle Erbe al suono della campana (il Rengo). Questo consiglio rendeva legali le deliberazioni e deteneva il potere sovrano solo in apparenza, perché non aveva diritto di iniziativa.
Il Consiglio dei Gastaldioni dei Mestieri era formato dai capi delle Arti; si riuniva quando lo riteneva opportuno, prendeva le deliberazioni che giudicava utili al bene della città, eleggeva il Podestà, i giudici, i tredici anziani, partecipava al Consiglio Maggiore e dirigeva tutta la vita del Comune. Deteneva dunque, effettivamente, ogni potere, anche se le sue decisioni erano sottoposte al Consiglio Maggiore.
Vi erano altri tre Consigli di minore importanza: quello degli Anziani e Gastaldioni, quello degli Ottanta, quello dei Gastaldioni e degli Ottanta.
Il Podestà normalmente era forestiero (perché fosse imparziale) ed eseguiva la volontà del Consiglio che l’aveva eletto. Le decisioni venivano dunque prese dal Consiglio dei Gastaldioni, rese legali dal Consiglio dei 500 e portate a compimento dal Podestà.
Questi ordinamenti sono trattati nella raccolta di Statuti detta Albertina, che si attribuisce a Mastino o ad Alberto, risale con ogni probabilità agli anni 1272-1276 e si conserva in un codice della Biblioteca Comunale.
Lo Statuto Albertino regola anche l’elezione alle varie cariche, le attribuzioni e gli stipendi dei magistrati, gli statuti delle Arti, i provvedimenti per le scuole d’insegnamento superiore.
Disciplina l’ordinamento delle milizie cittadine e tutto ciò che doveva regolare la vita economica, sociale e politica della città. Comprende inoltre delle disposizioni contro gli eretici, poiché ii Comune esercitava una specie di autorità tutoria sulle chiese.
Il manoscritto conservato presso la Civica Biblioteca è un prezioso documento della vita comunale al tempo di Mastino e di Alberto; ma è anche più importante perché contiene le modificazioni apportate agli Statuti fino al 1323, e queste ci rivelano il graduale trapasso dal Comune alla Signoria e dalla Signoria al Principato.
Nell’anno 1277 la città, sciolta dalla scomunica, pacificata, sicura, governata democraticamente, aveva raggiunto il benessere e la prosperità anche per il rifiorire del commercio e dell’industria. Mastino poteva ormai cogliere i frutti della sua opera e considerarsi vero signore; invece proprio allora cadde vittima di una congiura. Il delitto fu compiuto da alcuni nemici (Scaramella e Pigozzo), che dopo essersi piegati nell’ora del pericolo alla sua autorità, non tollerarono che egli continuasse a dominare da vero padrone e che intervenisse anche nelle loro questioni private.
Non si poteva abbattere il nuovo regime solo eliminando chi l’aveva creato: l’uccisione di Mastino, che avrebbe dovuto segnare la fine del potere scaligero, consolidò invece la posizione di questa famiglia.
Alberto, già da dieci anni associato al governo, poté in quell’occasione rendere legale e definitiva la trasformazione del Comune in Signoria, poté far approvare molte misure, che prima erano state solo occasionali o temporanee, ed impadronirsi saldamente del potere. Accorso con delle truppe da Mantova, dove era podestà, Alberto ottenne di essere eletto Capitano del Popolo, Rettore dei Gastaldi e di tutto il popolo. Al momento della nomina gli fu conferita anche l’autorità di interpretare e mutare gli Statuti. Nella raccolta Albertina le aggiunte degli anni 1277-1301 documentano le modificazioni apportate da Alberto agli Statuti: le precedenti forme di governo sono apparentemente rispettate, ma l’autorità del Capitano del popolo (cioè di Alberto) prevale su ogni altra magistratura e sugli stessi Consigli.
Il governo di Alberto fu abile e prudente. Anzitutto si assicurò contro i nemici interni e i fuorusciti, poi intese ad evitare o a sventare ogni minaccia esterna, contando sulla leale amicizia di Mantova e Milano. L’unico grave pericolo, durante il suo lungo governo, fu rappresentato dalla coalizione di numerose città guelfe (1277-1289), che giunsero, devastando, fino a S. Martino Buonalbergo; ma Alberto seppe superare la difficile situazione cedendo la sola Cologna e rendendosi amico lo stesso pontefice.
Alla morte di Alberto, avvenuta nell’anno 1301, lo stato era concorde all’interno e rispettato all’esterno; le istituzioni comunali erano ormai soggette anche giuridicamente al Signore.
I Giudizi di Dio, entrati nell’uso fin dal tempo della dominazione longobarda, durante il sec. XIII avevano luogo in Arena. Alle parti in contesa era concessa la facoltà di farsi rappresentare da uomini specializzati, detti bravi o campioni. Per ogni duello si riscuoteva un introito notevole che era suddiviso fra il Comune e la famiglia veronese dei Visconti. Nell’Arena erano eseguite anche le condanne capitali, normalmente per mezzo del rogo.
Nel febbraio dell’anno 1278, durante la signoria d’Alberto, si giustiziarono i 166 eretici catturati da Mastino due anni prima a Sirmione. Dall’anno 1284 alla fine del ‘400 gli arcovoli dell’Arena diventarono il ricetto delle donne di facili costumi, alle quali furono concessi in affitto.
AI sec. XIII risalgono le case Montecchi e Capuleti, i Palazzi del Comune e del Governo, la chiesa di S. Leonardo, la ricostruzione di S. Zeno in Oratorio e l’ornamentazione marmorea di S. Zeno Maggiore. S. Francesco d’Assisi giunse a Verona nell’anno 1220, al suo ritorno da Gerusalemme.
Alberto, morendo, lasciò la Signoria ai figli Bartolomeo, Alboino e Cangrande. Il figlio naturale Giuseppe era stato posto indegnamente a capo dell’Abbazia di S. Zeno. Bartolomeo, il primogenito, assunse il potere con la conferma popolare, governò saggiamente e s’impadronì di Arco, nel Trentino. Questo principe, di carattere mite e liberale, è noto soprattutto per aver per primo ospitato Dante, con lieta e generosa accoglienza.
Le due terzine a lui dedicate nel canto XVII del Paradiso esprimono la più alta lode alla quale un principe possa aspirare. La gentile vicenda – o leggenda – di Giulietta e Romeo si fa risalire alla breve signoria di Bartolomeo (1301-1304).
Alla morte di Bartolomeo successero i fratelli Alboino e Cangrande. Alboino fu eletto Capitano della Città e del Popolo e Podestà perpetuo (non più annuale) della Domus Mercatorum. Queste cariche abbinate, nelle quali risiedeva ogni potere civile e militare, furono poi conferite a tutti i suoi successori. Alboino condusse a termine, quasi sempre felicemente, alcune guerriglie con le città vicine – Este, Vicenza, Parma, Brescia – ottenendo di consolidare il suo dominio e di assicurarsi dai nemici esterni la città, anche se i vantaggi materiali furono quasi nulli.
L’imperatore Enrico VII, disceso in Italia con il proposito di pacificare le fazioni che dilaniavano le nostre più belle città, conferì ad Alboino e a Cangrande, associato al governo fin dall’anno 1308, la dignità di Vicari Imperiali di Verona, legittimando così la loro autorità (1311).
Cangrande fu valido collaboratore e saggio consigliere del fratello e diede prova, nelle guerriglie, di grande talento militare.
Alla morte di Alboino (1311) divenne unico Vicario e Signore della città. Abile politico, guerriero coraggioso, munifico mecenate, Cangrande portò la Signoria al massimo splendore e all’apice della sua potenza. Dapprima con l’appoggio di Enrico VII, poi con le sole sue forze estese in pochi anni (1311-1329) i domini territoriali fino a comprendere Vicenza, Feltre, Belluno, Mantova, Padova, Treviso e non si accontentò della gloria militare, ma volle conciliarsi gli animi con un mite e saggio governo. I cronisti di queste città, ebbero per Cangrande solo parole di lode. Infatti, egli “non si appagava del proprio guadagno, ma cercava il guadagno del popolo conquistato”. Nell’assemblea tenuta a Soncino nel dicembre 1318 fu nominato capitano generale della Lega Ghibellina.
Verona era divenuta capitale di un vasto fortissimo stato; ma i costumi erano austeri e quasi rozzi, ogni spesa superflua era proibita, la vita economica era regolata da severe prescrizioni, i cittadini dedicavano il loro tempo ai combattimenti o alla costruzione di mura e torri, più che ai divertimenti. Si era ben lontani dal lusso e dalle raffinatezze, che si accompagneranno alla decadenza della Signoria.
Cangrande fece ampliare e restaurare la cinta delle mura, rafforzan-dola con torri e con un vallo profondo – tuttora esistente – scavato a scalpello fra porta Vescovo e S. Giorgio; costruì in provincia numerosi castelli, che formavano un saldo sistema difensivo e dominavano le vie principali; ma non si limitò a dare sicurezza e potenza ai suoi domini.
Provvide al progresso e alla piena prosperità di essi con grandiose opere di pace. Fece la revisione degli Statuti, strinse patti commerciali, costruì palazzi e chiese, ponti e fontane; forse per l’austerità di vita imposta alla popolazione poté aumentare il patrimonio comunale e scaligero, diede sviluppo al commercio e all’industria, specialmente laniera. Provvide al miglioramento delle scuole di cultura superiore, chiamando numerosi insegnanti da ogni parte d’Italia e dall’estero perché tenessero pubbliche dispute. Lo stesso Dante tenne qui una lezione nel 1320, la nota Quaestio de aqua et terra, come ricorda una lapide nell’atrio di S. Elena.
A Cangrande, conosciuto giovinetto alla corte di Bartolomeo e forse rivisto ormai Signore, Dante dedicò la III cantica della Commedia e sperò che questo principe, geniale valoroso e potente, potesse realizzare il suo ideale politico.
Ma Cangrande morì (1329) a soli 38 anni spegnendo le speranze di tutti i ghibellini d’Italia. Poiché non lasciava figli maschi legittimi (aveva dieci figlie ed alcuni figli naturali), furono eredi i figli di Alboino: Alberto II e Mastino II, l’uno imbelle e dissoluto, l’altro ambizioso e crudele.
Fu quest’ultimo a tenere di fatto il potere. Mastino II estese i domini territoriali impadronendosi di Brescia, comperando Parma e Lucca, occupando Massa e Pontremoli. Ma furono conquiste effimere: il vasto stato non era più compatto, né forte, né retto da un Signore valoroso e geniale com’era stato Cangrande.
Nella primavera del 1337 si formò una lega fra Venezia, Firenze, Milano, Mantova, Este, per combattere gli Scaligeri. L’esercito alleato avanzò fin sotto le mura di Verona e catturò Alberto. La guerra durò due anni e Mastino fu sul punto di perdere tutti i domini; invano aperse trattative di pace ed invocò l’aiuto di Lodovico il Bavaro, offrendogli numerosi castelli. Infine poté segretamente stringere trattati di pace separati: cosi liberò il fratello e mantenne il possesso di Verona, Vicenza, Parma e Lucca, ma dovette cedere gli altri territori (1339).
Qualche anno più tardi Parma fu conquistata da Azione da Correggio e Lucca fu venduta dallo stesso Mastino ai Fiorentini.
I rapporti con le città vicine – tranne con Milano – erano pessimi. In Verona la situazione era tristissima: discordie, tradimenti, lotte, decadenza economica; infine il terremoto e la peste dell’anno 1348. Mastino, avvilito per la rovina della città e dello stato, inviso a tutti, anche alla moglie Taddea da Carrara, mori nell’anno 1351, dopo essersi fatto costruire una splendida arca marmorea, nel cimitero Scaligero.
Alla corte di Mastino, secondo una cronaca del tempo, numerosi esuli accorrevano da regioni vicine e lontane in cerca di asilo e protezione. Pietro Alighieri, figlio di Dante, visse in Verona almeno negli anni 1333-1361 ed ebbe l’ufficio di Vicario del Podestà. Francesco Petrarca, più volte ospite del letterato veronese Guglielmo Guarienti (detto da Pastrengo), ebbe qui numerosi amici. Si trovava a Verona quando gli apparve, in sogno, la visione di Laura morente, nello stesso giorno in cui Laura realmente morì (6 aprile 1348).
I successori di Mastino II tentarono invano d’impedire il disgregarsi dello stato, continuamente minacciato e combattuto dalle signorie confinanti. I principi si susseguirono rapidamente, insidiati e traditi dagli stessi concittadini, talvolta uccisi dai propri fratelli, bramosi di potere e di ricchezze. Lo sfarzo e lo sperpero della corte esacerbavano la popolazione, impoverita dalle guerre e gravata con tasse opprimenti.
Alla morte di Mastino II (1351) la Signoria passò ai figli Cangrande II, Cansignorio e Paolo Alboino, mentre Alberto II si ritirava a vita privata e poco dopo moriva. Dei tre fratelli, tenne effettivamente il potere solo il primo, Cangrande II, detto “Can rabbioso”.
Se pure egli non fu quale lo descrive il soprannome, certo non lasciò buona fama di sé. Per consolidare la sua debole posizione entrò a far parte della lega antiviscontea ed intensificò i rapporti con il cognato Marchese di Brandeburgo e Conte del Tirolo (aveva sposato Elisabetta, figlia di Lodovico il Bavaro).
Nell’anno 1354 Cangrande II era appena partito per Bolzano, ove l’attendeva il cognato, quando Fregnano, fratello naturale al quale egli aveva affidato la città, fu spinto alla ribellione dai Gonzaga e dai Visconti; riunì pertanto il popolo a parlamento e si fece eleggere Capitano, Signore e Podestà.
Cangrande, raccolto frettolosamente un esercito, ritornò in città, diede battaglia al fratello presso il Ponte delle Navi e lo pose in fuga. Fregnano cercò scampo su di una piccola barca, la spinse nell’Adige, ma per i suoi movimenti inesperti la fece rovesciare. Gravato dalle armi, annegò; il suo corpo fu recuperato ed appeso alla forca per un piede. Solo la parte peggiore della popolazione aveva partecipato alla rivolta e l’ordine fu facilmente ristabilito per mezzo di esecuzioni e confische.
Lodovico accorse subito con 500 cavalieri e propose di vendicarsi anche dei Gonzaga (che avevano istigato e reso possibile con i loro aiuti la ribellione), seguendo l’usanza tedesca di “abbruciare” tutto il loro paese. Al rifiuto di Can rabbioso, “parendogli che l’humanità del cognato fosse viltà e dappocaggine a perdonare le ingiurie, partì mal soddisfatto”.
Nel luogo in cui vinse Fregnano, Cangrande eresse, a rendimento di grazie, la chiesa di S. Maria della Vittoria. I cavalieri tedeschi rimasero a lungo in Verona e vi fecero erigere anch’essi una chiesa, S. Pietro Martire, dove stemmi ed affreschi ricordano la loro presenza.
Per difendersi da ogni minaccia interna ed esterna Cangrande II costruì il castello Scaligero, detto poi Vecchio, mirabile esempio di palazzo sontuoso e di fortezza saldissima (1351-1354). Sua principale preoccupazione fu ammassare denaro per i propri figli naturali – poiché non n’aveva di legittimi – e depositarlo al sicuro in altre città, Venezia e Firenze. Per fabbricare il castello, in cui abitò sempre, e per accumulare tesori in favore dei figli, impose forti tasse, con gran malcontento della popolazione, mentre sollevò l’indignazione dei fratelli, nominando eredi della Signoria i propri figli naturali.
Si attirò così l’odio dell’intera città, che non lo compianse quando il fratello Cansignorio lo uccise di sua mano presso S. Eufemia (1359).
Cansignorio si rifugiò a Padova, presso lo zio Francesco da Carrara, al quale ricorse per aiuti: con questi ritornò in città e fu proclamato Signore insieme al fratello Paolo Alboino. Impadronitosi del potere per mezzo di un delitto, Cansignorio governò sempre da solo. Evitò cautamente ogni occasione di guerra, rinnovò i trattati di commercio con la Repubblica di Venezia e, soprattutto, ampliò, decorò, abbellì Verona, che per lui meritò il nome di marmorea.
Ingrandì il Palazzo Scaligero e costruì, per sua residenza, il Palazzo del Capitano. Quest’ultimo comprendeva un vasto complesso di edifici formanti quasi cittadella e disposti intorno al giardino di Piazza Viviani, sorto anch’esso per volontà di Cansignorio (1364). Condusse in città l’acqua del Lorì (lo Rio, di Avesa), che arrivava solo a S. Giorgio, e innalzò la maestosa fontana di Madonna Verona (1368). Ricostruì la Torre del Gardello e vi pose un orologio mosso da un congegno complicato, costituito forse da recipienti d’acqua. La torre esisteva già: Cansignorio la sopraelevò perché le ore fossero visibili a tutta la città e completò l’orologio con una campana, prima piccola, poi assai più grande affinché i rintocchi si udissero anche nei borghi. Questo fu il primo orologio posto su di una torre, in Verona, ed uno dei più antichi d’Italia (1370).
I ponti in quel tempo erano fatti per gran parte in legno. Cansignorio costruì in pietra, con quattro grandi archi e un torrione centrale, il Ponte delle Navi; vi pose un suo busto, in una nicchia del torrione, e due lapidi divenute famose. Il ponte fu certo l’opera più grandiosa di Cansignorio e costò, alla città, 30.000 fiorini d’oro.
A testimoniare il gusto fastoso di questo principe rimane la ricchissima arca fatta costruire mentre era ancora in vita, nel cimitero Scaligero, dal più noto dei maestri campionesi, Bonino.
Il governo di Cansignorio, iniziato con un delitto, terminò con l’uccisione del fratello Paolo Alboino, che pure non aveva mai avuto autorità e che incolpato, forse a ragione, di ribellione, si trovava da dieci anni in prigione, a Peschiera. Sul letto di morte Cansignorio ne ordinò l’uccisione, per assicurare il potere ai propri figli illegittimi Bartolomeo Il ed Antonio, di quindici e tredici anni (1375). Questi vennero, infatti, proclamati Signori; ma il governo fu tenuto per qualche anno dai reggenti Guglielmo Bevilacqua, Jacobo di Sansebastiano, Avogadro degli Ormaneti ed Antonio da Legnago, saggi ed onorati cittadini veronesi.
Nell’anno 1377, durante la guerra fra Genova e Venezia, Bernabò Visconti, alleato di Venezia, invase il territorio veronese e vicentino, reclamando l’eredità privata della moglie Regina della Scala, sorella di Cansignorio. Verona ottenne aiuti da Padova e devastò a sua volta le campagne bresciane e cremonesi, costringendo Bernabò a chieder pace. Nell’accordo di Torino (1378) Bartolomeo ed Antonio furono riconosciuti Signori di Verona e Vicenza, ma dovettero impegnarsi a pagare un tributo assai oneroso.
Segui un breve periodo di ordine e tranquillità. Bartolomeo, raggiunta la maggiore età, assunse il potere e proseguì la saggia politica dei reggenti; ma nell’anno 1381 fu ucciso a tradimento per ordine del fratello, che ambiva a governare da solo. Questo delitto affrettò la rovina scaligera. Antonio cercò di allontanare da sé l’accusa di fratricidio ordinando processi e supplizi; ma, istigato da cattivi consiglieri, tenne una condotta così inetta, presuntuosa e crudele da inimicarsi gli uomini d’armi e di governo, che lo abbandonarono rifugiandosi alla corte viscontea. Continuamente minacciato e combattuto dai Carraresi, signori di Padova, da un lato, e dai Visconti di Milano, dall’altro, Antonio fu infine costretto a fuggire per non cader prigioniero dei Visconti, che avevano occupato Verona. Era l’anno 1387. Abbandonato dal popolo, che rifiutò di combattere, fuggì su di una barca, con la famiglia e le poche ricchezze che aveva potuto prender con sé. Seguì la corrente dell’Adige, riparò in Venezia e pochi mesi dopo morì (1388).
Per deliberazione del Maggior Consiglio, Verona trattò la resa con Guglielmo Bevilacqua, che si era rifugiato alla corte viscontea durante il malgoverno di Antonio, e si consegnò al nuovo Signore, Gian Galeazzo Visconti, il 20 ottobre 1387, ponendo condizioni che poi non furono osservate. Era la fine della tirannia scaligera, ma era anche la fine dell’indipendenza.